La prima volta che ho letto L'ombra del vento ero poco più che adolescente, avevo la stessa età di Daniel Sampere, il protagonista.
La prima volta che sono entrata nel Cimitero dei Libri Dimenticati, non l'ho dimenticata.
Tornarci, quattordici anni dopo, a causa di un bookclub con degli amici che non avevano mai letto questo autore, è stata un'emozione strana, dissonante.
Che ho bisogno di raccontare.
Ho incontrato l'ombra del vento insieme al resto del mondo, nelle vetrine delle librerie che grondavano copie del successo editoriale del momento.
Non so cosa mi abbia attratta di più, se il titolo così misteriosamente evocativo, o quella copertina in scala di grigi piuttosto malinconica.
Ero un'adolescente che passava ogni sabato in libreria, quando la lettura non era il trend del momento, anzi, diciamocelo, era piuttosto da sfigati.
Per chi non l'avesse ancora letto (e spero che dopo il mio articolo correrà a rimediare), il romanzo si apre con un ragazzino che viene accompagnato dal padre in un luogo segreto, il Cimitero dei Libri Dimenticati. Un labirinto, accuratamente nascosto tra le vie di Barcellona, in cui riposano migliaia di volumi in tutte le lingue, salvati dall'oblio e in attesa di un nuovo lettore.
Mi sono sentita improvvisamente parte di una comunità speciale, capita ed elettrizzata all'idea di un posto così magico.
Ed è allora che sulla scena entra Julian Carax, l'autore del libro adottato dal piccolo Daniel, l'ombra del vento. Un autore apparentemente maledetto, i cui libri vengono bruciati in maniera sistematica. Le sue pagine sono gotiche, immaginifiche, eppure pregne di un sentimento tangibile.
Daniel non può fare a meno di cercare Carax, quasi vittima di una dipendenza, che afferra anche i lettori. Almeno ha afferrato me. Due volte.
La me adolescente era più a suo agio con le storie a tinte fosche. Se riguardo i quaderni di quegli anni (persino quelli di scuola) spuntano monconi di trama con streghe e fantasmi. Zafòn era l'autore giusto per quel periodo eppure, anche così, alcune sue scene mi sono rimaste impresse negli anni, per i brividi che mi hanno causato.
Una delle cifre dell'autore, infatti, è giocare con gli elementi tradizionali degli incubi (scrittori maledetti, libri bruciati, bambole, statue cimiteriali, ville abbandonate...) per rielaborarli in maniera originale all'interno delle sue storie. La sensazione di paura e di tensione crescente, oggi, non solo è rimasta, ma credo sia addirittura cresciuta.
Forse sono io ad avere sempre meno coraggio, chissà.
Rispetto alla prima lettura, ho fatto molto più caso ai commenti di Fermin Romero de Torres sulle donne. Questo personaggio, un latin lover dalla battuta pronta e un incredibile talento per lo spionaggio, fa apprezzamenti continui sui corpi femminili e le proprie arti amatorie. Commenti che con la sensibilità di oggi sembrano politicamente scorretti, insoliti, eppure stranamente genuini. Soprattutto in bocca a un personaggio della Barcellona di metà novecento.
Ho amato l'intreccio continuo tra Daniel e Julian Carax, non svelerò di più per evitare spoiler, ma il legame tra i due personaggi, se durante il corso del romanzo è stupefacente, sul finale è riuscito anche a commuovermi.
Il dettaglio della penna, per quanto possa sembrare piccolo, l'ho trovato davvero geniale.
Forse, rispetto alla prima lettura, ho osservato gli incastri di Zafòn, ho ammirato l'architettura della sua storia. Il modo in cui ha affrescato le vicende di Carax e dei suoi amici, dei luoghi in cui è vissuto, per poi posizionarle al centro della vita di Daniel e dei suoi cari.
Questa non è solo talento nella scrittura, è anche una grande tecnica, un incastro degno dei thriller.
Ma ciò che resta del romanzo, oltre all'atmosfera cupa delle case abbandonate e alla cenere del regime spagnolo, è il cuore dei personaggi. Sono tutti diversi, forse quelli maschili caratterizzati con più profondità di quelli femminili, che hanno sempre qualcosa di evanescente e inafferrabile, quasi come se le donne per Zafòn mantenessero un alone di mistero.
Su tutti, spiccano Daniel Sampere e Julian Carax.
Daniel lo vediamo crescere, per lui l'ombra del vento è quasi un romanzo di formazione. Se all'inizio è un bambino sperduto, con il passare dei capitoli diventa un ragazzo determinato, audace fino alla sventatezza, che vive i propri sentimenti con la passione dei diciottenni.
Julian Carax avrebbe potuto essere come Daniel, se la sua vita fosse stata diversa, se il destino non si fosse accanito su di lui fin dalla nascita. Un personaggio appassionato, sventurato, un romantico, un genio e un pazzo. Julian Carax è talmente tante cose che non si può ignorare, non si può dimenticare.
L'autore l'ha talmente ammantato di mistero, che la voglia di svelarlo è quasi insopportabile e il personaggio che ne emerge, una volta raccontata la sua storia, la sua verità, giustifica il successo di questo romanzo.
Confesso che ho continuato a pensare a lui, e solo a lui, una volta chiuso il volume.
La prima volta che ho letto L'ombra del vento, Carlos Ruiz Zafòn era in vetta nelle classifiche editoriali del mondo, suscitava la curiosità dei giornalisti quasi quanto il suo Julian Carax.
Adesso, ho riletto le sue pagine con la consapevolezza che non scriverà più, che questa vena di fantasia oscura e sentimenti puri si è esaurita. E fa davvero strano.
Mi sono chiesta che tipo di persona fosse, mi è venuta voglia di scovare qualche sua vecchia intervista, perché ho la sensazione, quasi un pizzicorio, che quello tra Daniel e Julian non sia un unico asse, ma la parte di un triangolo il cui ultimo vertice è proprio Carlos Ruiz Zafon.
D'altronde, come insegna il Cimitero dei libri dimenticati:
"Ogni volume che vedi possiede un'anima, l'anima di chi lo ha scritto e l'anima di coloro che lo hanno letto, di chi ha vissuto e di chi ha sognato grazie ad esso."
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